Abbiamo creato una società che ha sovvertito l’etica di prossimità, quella che faceva di ognuno una parte importante della comunità. Già, la comunità, un luogo ristretto dove vigevano poche regole ma dove l’individuo stava al centro e si batteva quotidianamente per “dare” una parte di sé per “l’insieme”.
Abbiamo scambiato la liberalità, la reputazione, la solidarietà, col denaro e la capacità di produrne sempre di più. Non scrivo di nostalgie utopistiche o di dottrina sociale, quanto del fatto che la produzione di denaro fine a se stessa ha occupato ciascuno di noi da quando siamo entrati nella filiera economica.
Eppure proprio quel mercato che ha dopato la nostra economia, virtualizzando la moneta con leve creative, ci sta mandando segnali precisi che convergono nuovamente verso la persona. Certo, viviamo tempi schizofrenici infestati da miopi politicanti e architetture di potere, anche mediatiche, anacronistiche. Ci stanno somministrando una socialità virtuale che tutti sosteniamo, dove ci ingaggiamo reciprocamente in formato binario, dal “televoto” all’SMS, dal “mi piace” al “tweet” o al “pin”. Ci mandiamo meno email e parliamo al telefono proprio se dobbiamo.
A rifletterci bene, però, se anche i “Ferrero Rocher” hanno mutuato il luccicante contenitore nella Rolls Royce guidata da Ambrogio e che ospitava la bella e sfavillante signora anni ’80-’90, col cesto di foglie della casa di campagna di un tizio che cucina per gli amici (quelli veri, in carne ed ossa, non quelli di Facebook), forse anche noi che facciamo parte di quella schiera di liberi professionisti e imprenditori che vivono di relazioni e della capacità di metterle a frutto (non di sfruttarle), qualche cambiamento dobbiamo farlo.
Forse dobbiamo ripristinare la modalità del “dare” senza nulla a pretendere, abolire quello scontato “do ut des” (io do affinchè tu dia), tornare alla consapevolezza evangelica del “vi è più felicità nel dare che nel ricevere”.
Anche Reid Hoffman, visionario fondatore del social network professionale Linkedin, nel libro scritto con Ben Casnocha “Teniamoci in contatto. La vita come impresa”, più volte esplicita il concetto che affinchè la comunità sociale sviluppi sinergie virtuose ogni componente deve aiutare gli altri membri a raggiungere i propri obiettivi, in modo generoso e senza attendersi ritorni e vantaggi immediati.
Se questa regola vale per un social network professionale, immaginiamo nella vita quotidiana, ad ogni livello delle nostre interazioni sociali!
Con ogni probabilità, quindi, la nostra professionalità deve tornare a ricomprendere una sana dose di umanità e di interesse personale verso il nostro cliente che, a questo punto, torna ad essere una persona al centro della nostra attenzione.
Allora smetteremo di scrivere spot su Facebook su prodotti e servizi ma cominceremo a “dare” informazioni e strumenti, utility e consigli. Smetteremo di guardare soffitti e pareti degli immobili da valutare per tornare a guardare la persona che abbiamo di fronte negli occhi. La pianteremo di annuire passivamente fingendo di ascoltare la persona che ci racconta i suoi bisogni, i suoi obiettivi di vita e le correlazioni economiche delle scelte che si appresta a fare anche grazie alla nostra consulenza. Ristruttureremo il dialogo perduto con la nostra platea e torneremo a mischiarci con la gente di piazza (anche se virtuale).
Riprendiamoci quei valori così rari e preziosi che hanno coeso piccole comunità, facendole crescere rendendole più forti ed evolute. Lavoriamo seriamente, non perdendo di vista l’economia reale, contagiamo in modo positivo chi ci è più prossimo, diventiamo fonte di riferimento per molti, distinguendoci per qualità e sensibilità.
Più che “Personal brand”, facciamo “Human brand”!
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